IL BLOCCO DEI LICENZIAMENTI RIGUARDA ANCHE I DIRIGENTI

Malgrado il riferimento alla fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della L. n. 604/1966, si deve ritenere che il divieto di licenziamento in costanza dell’emergenza da COVID-19, si riferisca non solo ai prestatori di lavoro che rivestono la qualifica di impiegato e di operaio, ma anche ai dirigenti.

Del resto, l’esigenza di solidarietà sociale si pone anche nei confronti di questi ultimi, che anzi sono i più esposti al rischio di subire il peso delle conseguenze economiche della pandemia, stante la maggiore elasticità del loro regime contrattualistico individuale e collettivo di preservazione dai licenziamenti arbitrari (Tribunale di Roma, ordinanza 26 febbraio 2021)

La vicenda giudiziaria nasce dal ricorso presentato da un dirigente, il quale aveva impugnato il licenziamento per motivo oggettivo, intimatogli in data 23 luglio 2020.

Nello specifico, il licenziamento era derivato dalla soppressione della sua posizione di Credit Manager, decisa in ragione della riorganizzazione aziendale conseguente al calo dell’attività, determinato a sua volta dall’emegenza epidemiologica da COVID-19, con accentramento della predetta posizione in capo all’Economic Planning and Budgeting Director.

A fondamento dell’impugnazione, il lavoratore deduceva:
1) la violazione del divieto di licenziamento ex art. 46 D.L. n. 18/2020 ed art. 80 D.L. n. 34/2020, che andavano interpretati nel senso di vietare i licenziamenti per motivi economici anche per i dirigenti;
2) l’ingiustificatezza del recesso per insussistenza della ragione addotta, posto che:
– non c’era stata alcuna riorganizzazione;
– lui era il dirigente con il minor costo;
– nel corso del 2020 la società aveva assunto vari lavoratori ed elargito incentivi subito dopo il suo licenziamento;
– la sua funzione come Credit Manager, ovvero quella di supervisionare l’attività del personale che si occupava di recupero crediti, era semmai destinata a crescere per effetto della pandemia;
– non era vero che le sue funzioni fossero state accentrate in capo all’Economic Planning and Budgeting Director.

Per il Giudice di prime cure la domanda attorea merita accoglimento per quanto di ragione.

Il lavoratore, invero, è stato licenziato per motivi oggettivi di natura economica in vigenza delle predette disposizioni normative, che hanno vietato di avviare procedure di licenziamento collettivo (artt. 4, 5 e 24, L. n. 223/1991), di procedere in quelle pendenti e di licenziare per giustificato motivo oggettivo (art. 3, L. n. 604/1966), indipendentemente dal numero dei dipendenti.

Orbene, malgrado il riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della L. n. 604/1966, che potrebbe indurre a sostenere, in rapporto all’ambito di applicazione, che tali divieti riguardino i soli prestatori di lavoro che rivestono la qualifica di impiegato e di operaio, nonchè quelli assunti in prova, dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva, si deve ritenere che le preclusioni si riferiscano anche ai dirigenti.

In primis, infatti, la ratio del “blocco” è evidentemente quella, in un certo senso di tutela dell’interesse pubblico, di evitare, in via provvisoria, che le generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro e che dunque il il danno pandemico si scarichi sistematicamente ed automaticamente sui lavoratori.

Ciò, anche a costo di una compressione temporanea di libertà e diritti costituzionali dei datori di lavoro, ma tuttavia contemperata dalla previsione di misure a sostegno delle imprese.

Di qui, la predetta esigenza di solidarietà sociale è di certo comune anche ai dirigenti, che anzi sono più esposti a tale rischio stante la maggiore elasticità del loro regime contrattualistico individuale e collettivo di preservazione dai licenziamenti arbitrari (cd. giustificatezza), rispetto a quello posto dalla normativa relativa ad operai e impiegati (ex multis, Corte di Cassazione, sentenza n. 34736/2019).

Peraltro, l’irragionevolezza di una loro esclusione è ulteriormente rafforzata dal fatto che essi sarebbero protetti in caso di licenziamento collettivo (art. 24, co. 1, L. n. 223/1991 nel testo novellato dall’art. 16, co. 1, lett. a, L. n.161/2014). In altri termini, se è difficile capire perché i dirigenti dovrebbero essere esclusi da un “blocco” dei licenziamenti chiaramente improntato al criterio della preclusione della giustificazione economica, ancor meno risulta comprensibile perché il divieto dovrebbe operare per costoro in caso di licenziamento collettivo e non in caso di licenziamento individuale, a differenza degli altri lavoratori.

Tantomeno pare che il Legislatore abbia inteso fondare una distinzione basata sullo “status” del lavoro dirigenziale e sulla particolarità di esso, non essendo comprensibile una eventuale tale “ratio” di diversificazione e posto che la “preclusione” mira proprio ad impedire licenziamenti agevolmente passibili di essere ritenuti illegittimi, altrimenti resi legittimi da difficoltà economiche pressoché generalizzate per via di un contesto di carattere eccezionale.

Dunque, il riferimento all’articolo 3 della L. n. 604/1966 mira ad indentificare la natura della ragione (“ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di esso”), impassibile di essere posta a fondamento del recesso, ma non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto.

Infine, in mancanza di diversa specifica, deve trovare applicazione la reintegra del dirigente nel posto di lavoro (art. 18, co. 1, L. n. 300/1970), trattandosi di sicura “nullità virtuale”, considerato il carattere di disposizione imperativa della norma che vieta il recesso.

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